A Venezia meritata coppa Volpi per Golino. Peccato Bellocchio a mani vuote

Assieme ai demoni e alle superstizioni che affollano i sotterranei di Napoli, Annarella (Valeria Golino) si libera della schiavitù di essere cosa ’e niente in una città onirica e satanica, di femminielli, crani adorati in chiesa, estorsioni, pistole che si tengono nell’armadio come grucce per gli abiti. Golino merita davvero la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile come protagonista di Per amor vostro di Giuseppe M. Gaudino, film che corteggia il cartone animato, il mélo napoletano alla Nino D’Angelo, lo splatterchic alla Tano da morire e la sperimentazione. Gaudino può permettersi la camera a spalla e il kitsch di chi è dichiaratamente Autore: il mare gonfio sotto tempesta, il cielo oscurato da nuvole funeste, resi con gli effetti speciali alla Felice Caccamo di Mai dire gol, il bianco e nero da fotoromanzo.


Si viene respinti o travolti da Per amor vostro , ma anche chi recalcitra di fronte al mix estremo, non può non riconoscere la bravura attoriale di Golino, già regista capace ( Miele , 2013).

Ha vinto la difficile scommessa di rendere la fragilità e la bellezza di una donna che cambia pelle, nell’indecisione di ribaltare il tavolo o di continuare a subire la condotta malavitosa e violenta del marito, di declinare di fronte alla crescita dei figli, di rinunciare all’amore. Ruolo insidioso, che facilmente avrebbe potuto prestare il fianco a un’interpretazione plateale, e invece Golino rimane sempre sul crinale tra dignità e sogno in cui si rifugia chi ha subito troppo.

Non stupiscono (anche se dispiace) i mancati riconoscimenti per Piero Messina e Luca Guadagnino. Il talento che Messina rivela nel sicilianissimo e pirandelliano L’attesa, in cui una madre (Juliette Binoche) finge che il figlio non sia mai morto, dovrebbe essere ripulito da certi toni esasperati.


A bigger splash di Guadagnino avrà al botteghino e all’estero (come già per Io sono l’amore) la soddisfazione che la critica non gli ha riservato in casa. A penalizzarlo un finale fescennino che schiaccia l’indubbia inclinazione estetica, e la buona direzione dei suoi già eccellenti attori (Tilda Swinton, Ralph Fiennes).

Peccato per Sangue del mio sangue (vedi Roberto Escobar, sopra) – quel Leone d’oro sempre sfiorato da Marco Bellocchio, a parte quello ad honorem alla carriera nel 2011 -, intenso connubio tra l’oscurantismo del passato e le ossessioni del presente, tragiche e comiche assieme, che hanno cancellato la questione morale, esorcizzandola con la paura di internet e delle tasse.

Peccato anche per l’equilibrio e la maturità con cui il regista – toccato personalmente dalla morte del fratello – guarda al tema del suicidio, già affrontato in Gli occhi, la bocca (1982).