Festeggiamo l’8 marzo con le donne coraggiose e sole di Aida Begić, il 10 marzo al Bergamo Film Meeting

Una trama femminile, impegnata, intensa attraversa tutta la filmografia di Aida Begić. Le donne della 38enne regista sarajevese hanno lo sguardo amaro, dolente, ma senza rinunciare all’ironia corrosiva e a certa giocosità, cifra dei balcanici. Così è Alma (Zana Marjanović) in Neve (Snijeg), opera prima vincitrice della “Semaine de la Critique” a Cannes nel 2008. Il film racconta la vita del villaggio isolato di Slavno nella Bosnia Erzegovina del 1997, dopo l’implosione dei Balcani a causa della guerra iniziata nel 1991. Vi sono rimaste solo donne, un vecchio e un bambino muto a seguito di un trauma. Gli uomini sono stati massacrati in guerra, proprio come a Srebrenica, dove l’11 luglio 1995 le truppe di Ratko Mladić sterminarono oltre 8mila civili. Allo stesso modo su Rahima (Marija Pikić) grava il destino del fratello minore, Nedim (Ismir Gagula) in Buon anno Sarajevo (Djeca), premio speciale della giuria nella sezione “Un certain regard”, sempre a Cannes, nel 2012 e vincitore della Mostra internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro.


«La Bosnia non è il migliore, né il peggior luogo in cui essere una donna oggi – sottolinea Begić, che il 10 marzo sarà al Bergamo Film Meeting -. La nostra è una società complessa con molti aspetti da risolvere – inclusa la questione delle pari opportunità -, conseguenza di un periodo molto triste e tragico della nostra storia. Le donne si sono trovate spesso nella situazione di rimanere da sole, dopo aver perso i propri uomini. In Neve e in Buon anno Sarajevo portano il peso dell’esistenza sulle loro spalle. Sono liberate e oppresse nello stesso tempo e la cosa curiosa è che sono loro stesse a trasmettere valori patriarcali. Paradossi che rendono l’universo femminile bosniaco molto interessante e, per una regista, sono una continua fonte di ispirazione. Nel nostro cinema non ci sono molte voci femminili e io così ho l’opportunità di raccontare storie di donne inedite».

Autrice di uno dei cortometraggi del film I Ponti di Sarajevo (2014), interpretazione collettiva del centenario della prima guerra mondiale, ci offre la cartolina di una città con la testa inchiodata all’ultimo conflitto, che ha riguardato (ufficialmente) la Bosnia dal ’92 al ’96. «La guerra è una parte importante della vita di chi ne è stato testimone. Chi è sopravvissuto all’assedio di Sarajevo ha cicatrici sull’anima che non potrà mai guarire. Considera addirittura il periodo del conflitto quasi migliore rispetto alla depressione successiva alla transizione post bellica. Sfortunatamente la politica ha ucciso tutti i nostri eroi, chi ha difeso la nostra città è stato emarginato. La mancanza di trasparenza e l’ingiustizia sono i motivi per cui la guerra è ancora così presente nelle nostre vite. Non abbiamo fatto nulla per rendere più funzionale negli ultimi vent’anni la realtà bosniaca, dove è in atto un regresso politico e sociale. Le ragioni che sottendono questa situazione sono molte, ma analizzarle e capirle ovviamente non ci aiuterà a risolvere il problema e non sono sicura che ne usciremo con facilità. La gente parla del passato perché ha perso le speranze per il futuro, che è fuori dal nostro fuoco».
Begić parla con la consapevolezza di chi ha vissuto la guerra nel lungo assedio di Sarajevo dal ’92 al ’96. E di chi ha deciso di indossare il velo da adulta, nonostante la contrarietà della famiglia d’origine, come ha raccontato in un precedente dialogo con il Sole 24 Ore al Festival del cinema di Torino, dove nel 2013 è stata giurata. Proprio come Rahima di Buon anno Sarajevo, con un passato punk. «A contestarla per quella sua scelta sono gli stessi mussulmani. Oggi parliamo del velo riducendolo a una questione tra religioni. È un argomento complicato di cui dovremmo parlare con maggiore delicatezza per capire dove realmente stia il problema di comprensione e dove siamo manipolati dai media e dalla politica». Anche se il tema della possibile deriva dell’estremismo religioso in Bosnia è una ferita aperta, sollevata anche dalla sua connazionale Jasmila Žbanić in Il sentiero (2010). Rahima è indagata da un lungo piano sequenza. «L’ho usato per portare il pubblico nel mondo della protagonista; è piuttosto un’illusione di movimento e un modo di girarle attorno. Non è stato facile ma sono contenta di esserci riuscita. Volevo fare qual cosa di differente rispetto ai miei lavori precedenti».
Il prossimo progetto della regista è ambientato in una Bosnia Erzegovina «post-apocalittica», in cui ha deciso di vivere, nonostante scelga «sfacelo» come termine per qualificare lo stato delle cose. Si intitolerà A Ballad «è una storia d’amore, dove mito e realtà si intrecciano.
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Aida Begić sarà ospite il 10 marzo (alle 19.30 in piazza della Libertà) alla 33esima edizione del Bergamo Film Meeting (fino al 15) nella sezione “Europa: femminile, singolare”, costola della rassegna bergamasca giunta alla sua seconda edizione. Oltre a Begić saranno protagoniste le registe Andrea Arnold (Gran Bretagna), Teresa Villaverde (Portogallo), e Agnes Kocsis (Ungheria). www.bergamofilmmeeting.it
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