Il premio Oscar Pawlikowski: mai adattare un classico della letteratura al cinema. Io giro senza sceneggiatura, scolpisco. Limonov? Provavo ribrezzo. Il genio di Carrère lo ha trasformato

L’intervista al premio Oscar per Ida, comparsa oggi su Domenica
Alla ricerca del paradosso e della complessità, sideralmente lontano (senza sconti per chi scrive) «dai media, che manipolano e banalizzano in pochi titoli il marasma esasperato delle informazioni». Anche per sfuggire a questo clima di confusione, «dove si capisce troppo o troppo poco», Pawel Pawlikowski si è ritirato con Ida agli anni Sessanta nella Polonia in cui è nato nel 1957 e in cui è cresciuto fino ai quattordici anni. E a quel film «in bianco e nero, fuori dal mondo, contemplativo, fatto di silenzi», come l’ha definito l’autore stesso salendo sul palco del Dolby theatre, la rumorosa Academy hollywoodiana si è inchinata, conferendo al regista polacco il premio Oscar come migliore film straniero. «Una vera sorpresa» per Pawlikowski, a suo agio nel salotto europeo, dove ha ottenuto per la stessa pellicola il premio Lux del Parlamento; spaesato nel «Moloch dell’enorme macchina cinematografica americana», di cui ama «il genio di Wes Anderson» e apprezza la corrente del cinema indipendente degli anni Settanta, dai primi film di Terrence Malick a Martin Scorsese. In verità, l’Academy ha dimostrato da anni, almeno in questa sezione, di preferire la sostanza ai lustrini. Basti pensare a La grande bellezza del nostro Paolo Sorrentino (2014), Amour di Michael Haneke (2013), Una separazione di Asghar Farhadi (2013).

Nel film di Pawlikowski, ambientato nel 1962, si racconta la storia di Ida (Agata Trzebuchowska), orfana cresciuta in un convento, convinta dalla madre superiora a far visita alla zia Wanda (Agata Kulesza), che l’ha abbandonata a un’età in cui non rimangono ricordi. «Sono tornato in Polonia per nostalgia, ma anche perché negli anni Sessanta il mio Paese era un mondo drammaticamente interessante, più semplice e meno contaminato dalla realtà virtuale in cui siamo immersi. Traumatizzato dalla seconda Guerra Mondiale, dallo stalinismo, ma pieno di energia fiorita dopo il terrore puro, con un margine di libertà culturale notevole». Wanda, ex giudice comunista, svela a Ida la sua origine ebrea e il suo vero nome, Anna. In un crescendo di non detti emerge che la famiglia di Anna è stata annientata dalla scure del nazismo. «Ma Ida non è un film sull’Olocausto – protesta Pawlikoski-. Mi ribello a questa definizione riduttiva. Parla anche di stalinismo e soprattutto dell’animo umano, del senso di colpa, di quanti personaggi possiamo essere in una vita, di che cosa sia la fede, del significato della religione, un sentimento tribale o trascendentale. C’entra perfino il jazz». Struggente la versione in polacco di Ventiquattromila baci. «Quando ero piccolo la musica italiana era di moda in Polonia, soprattutto Adriano Celentano e Marino Marini. Negli anni Ottanta venni a vivere a Torino, dove avevo una fidanzata. Sono un fan dell’Italia, è un Paese che mi è simpatico e vicino». Parla infatti un italiano fluente, con pochi inciampi. E ama il nostro cinema. «Il Neorealismo, Ladri di biciclette di De Sica, Accattone di Pasolini, La dolce Vita, 8 e ½ e Amarcord di Fellini». Il rigore geometrico di alcune inquadrature potrebbe rimandare a certo amore architettonico dei film di Antonioni, ma Pawlikowski smentisce. «La macchina da presa di Antonioni si muove sempre, mentre in Ida solo due volte alla fine. Mi piace il suo mondo astratto, soprattutto ne L’avventura, ma non è una sua invenzione. In Ida il paesaggio astratto ha più a che fare con una dimensione spirituale del mondo piuttosto che con l’alienazione occidentale, così come il dramma sottostante».

Dal 19 al 21 marzo il regista polacco sarà ospite a L’immagine e la parola, invitato dall’amico Emmanuel Carrère – (vedi in questo stesso numero la recensione di Armando Massarenti all’ultima opera), co-curatore della costola primaverile del festival di Locarno. «Carrère mi contattò dodici anni fa, aveva visto i miei documentari. Mi procurai i suoi libri, di cui sono diventato un grande ammiratore. Siamo amici, mi sento molto vicino al suo pensiero, al suo senso di onestà e ironia, al suo modo giocoso di porsi, al suo trasporto per i temi essenziali della vita. Nel suo libro su Limonov ha citato il mio documentario Serbian Epics, anche s e dopo averlo visto ha perso un po’ l’entusiasmo per il suo protagonista. Ma non troppo». Limonov nel documentario di Pawlikowski, girato nel 1992, in piena guerra dei Balcani, dove presenzia anche Radovan Karadžić, non ha un ruolo edificante. «Provavo ribrezzo per come Limonov adulava i miliziani serbi e loro stessi ne erano frastornati. Trovavo idiota mettersi in un conflitto con cui non aveva niente a che fare per ragioni narcisistiche. Tuttavia è un uomo molto intelligente, con un forte senso dell’assurdo, ma difficile da prendere sul serio anche nel suo delirio nazionalista. Non mi sembrava un personaggio interessante, è il genio di Emmanuel che lo ha trasformato in una grande figura letteraria, come Julien Sorel, sfaccettata e contradditoria».
La frontiera tra finzione e verità nel cinema è uno dei temi sulla carta della rassegna di Locarno: «Quando giro film di finzione, io scolpisco non seguo sceneggiature. Diffido soprattutto degli adattamenti dalla grande letteratura, ne ho troppo rispetto. Il cinema è un fatto concreto, ha una logica visuale e sensuale totalmente a se stante. Solamente da un libro non tanto riuscito si può trarre uno spunto, ma non toccherei mai Dostoevsky e Čechov». Uno dei suoi documentari tuttavia si intitola Dostoevsky’s Travels: «Ma quello è un film parodistico – puntualizza Pawlikowski – su un tramviere, antico discendente dello scrittore russo, un piccolo uomo sovietico che si fa crescere la barba per assomigliare al suo antenato, ma ha a cuore solo le cose terrene. Un amico ha definito ironicamente materialismo trascendentale la sua ossessione per la Mercedes». Difficile dunque conciliare la penna dello scrittore, dello sceneggiatore e del regista di cinema, come fa Carrère: «Emmanuel è un ottimo critico cinematografico, ma noi parliamo piuttosto di letteratura, approfondiamo temi filosofici simili in campi culturali totalmente diversi».
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Pawel Pawlikowski è ospite della III edizione dell’evento primaverile (19-22 marzo) del Festival del film Locarno, diretto da Carlo Chatrian. Il regista polacco parteciperà a una serie di incontri sul rapporto tra immaginario creativo, scrittura e cinema insieme allo sceneggiatore e regista francese Emmanuel Carrère, ospite d’onore e co-curatore della rassegna «Quattro giorni nell’universo di Emmanuel Carrère». Del regista polacco verranno proiettati i documentari «Dostoevsky’s Travels» e «Serbian Epics», nonché il premio Oscar «Ida». In concomitanza con la rassegna uscirà il volume «Emmanuel Carrère. Tra cinema e letteratura» (foto), a cura di Carlo Chatrian e Daniela Persico (Bietti,. Milano, pagg. 170, €14,00) www.pardo.ch