Timbuktu nelle sale da febbraio è un calcio all’estremismo

Il mauritano IAbderrahmane Sissako nel suo fil narra le contraddizioni dei jihadisti e le grottesche, ma tragiche conseguenze

Un rigore d’aria, perché la palla è stata sequestrata dai jihadisti. Ragazzini smilzi e nerissimi si sfidano nel deserto a pedate nel vuoto in una partita di calcio mentale. È il modo di Abderrahmane Sissako di spiegare in Timbuktu che l’estremismo, «che ha preso in ostaggio l’islam», non potrà vincere perché la passione e l’arte sono tarli che non si stanano dalle teste degli uomini. Il film del regista mauritano – uno dei migliori del 2015, in Italia nella seconda metà di febbraio, distribuito da Academy Two – è un inno alla tolleranza. La critica al festival di Cannes, dove ha vinto il premio ecumenico della giuria, l’ha definita «un’opera urgente». Mai come oggi, dopo il massacro nella sede della rivista satirica parigina «Charlie Hebdo» e le stragi che si sono susseguite in Francia. Una pellicola che potrebbe a buon titolo rappresentare la maggioranza dei musulmani moderati, come l’imam del film, che ha espresso il proprio dissenso e la propria estraneità agli eccidi.

L’idea nasce dall’orrore suscitato in Sissako dalla lapidazione, avvenuta nel 2012 in Mali, Paese in cui è cresciuto, di una coppia di giovani genitori, colpevoli di non aver contratto matrimonio. Il video, postato dagli aguzzini, diventa virale in rete. Un episodio accaduto durante l’occupazione da parte di una cellula di Al Qaeda della capitale millenaria, dichiarata patrimonio dell’Unesco, la cui biblioteca ospita migliaia di manoscritti islamici antichissimi (tra il XIII e XVI secolo) e i cui vetusti palazzi di fango ocra sono stati in parte distrutti dalla furia degli estremisti. «Non so cosa porti un uomo ad essere così radicale – spiega con la sua ieratica presenza Sissako -. Forse la gente che ama impaurire e comandare sul prossimo è dominata dal desiderio assurdo di estendere il proprio potere a qualsiasi oggetto, finanche una maschera». Tra le scene cruciali del film, un jihadista, Abdelkrim (Abel Jafri), spara contro statue di legno, piantate tra le dune, sbrecciandole. È il sintomo della frustrazione di chi proibisce agli altri e non è in grado di rispettare per primo i divieti. Gli oltranzisti, infatti, di nascosto bevono, fumano, entrano in moschea armati senza togliere le scarpe; stuprano, desiderano la donna d’altri. Non c’è scampo in città, ma nemmeno tra le dune, dove Satima (Toulou Kiki), sposata e madre di una figlia, riceve le visite pruriginose di Abdelkrim.
Animati da contraddizioni, meschini, troppo umani per essere rapaci e bestiali, i qaedisti appaiono come semplici figuranti di una commedia feroce e pertanto ancora più reali. «Anche i jihadisti hanno una parte buona. Il cinema serve a mostrare i dubbi, la fragilità che nascondiamo e che genera emozioni. Possiamo aspirare a dire la verità, secondo una pretesa che si basa su valori che vogliamo difendere e proteggere. La mia idea di cinema è un invito a fare un viaggio assieme, a condividere con i personaggi il loro senso di libertà, e guardare anche dalla loro prospettiva. Il cinema è un linguaggio che ognuno parla con il proprio accento, che è frutto dell’educazione, di ciò che ci manca, di quello che abbiamo e non abbiamo avuto. Ogni atto di cinema è un atto di speranza, anche se per essere credibile nel racconto la speranza deve essere rara>».
Contraddizioni difficili da affrontare con leggerezza, soprattutto perché l’accusa viene da uno che in Africa è nato e cresciuto e soffre nel vederla abbrutita sotto la scure di una religione che imbraccia i kalashnikov. «Ho cominciato a girare a Timbuktu, subito dopo la liberazione dai qaedisti nel 2012 da parte dell’esercito francese. Il sopralluogo è andato bene, ma un mese dopo tre militanti si sono fatti esplodere in un’auto, uccidendo due passanti. La vicenda ha messo tutto in discussione, perché non potevo esporre al pericolo la troupe. Così ci siamo spostati in Mauritania, dove lo Stato ci ha garantito che nessuno sarebbe stato rapito e che non ci sarebbero stati sabotaggi. Ma la tensione era comunque alta, perché nessuno poteva proteggerci dalla pazzia di un attacco suicida».
Tragico, ma caustico, con punte grottesche (tra cui una mucca contesa che si chiama «GPS») Timbuktu trasforma in un’icona farsesca chi detta veti e non è in grado di imporne la cogenza per manifesta assurdità. Nel film una giovane ambulante propone inviperita ai miliziani che le vengano tagliate le mani piuttosto che vendere la merce con i guanti, e quest’ultimi rimangono interdetti. Come dopo aver sequestrato ai ragazzini la palla, cominciano a discutere animatamente su chi sia il calciatore più forte. E ancora, l’ex rapper, scelto forse per il suo impatto mediatico per declinare la sharia contro gli infedeli, si inceppa in balbuzie davanti alla telecamera perché non riesce a calarsi nella parte. «L’umorismo è come un sussurro. Quando gridiamo non ci ascoltiamo perché le voci si sovrappongono, ma se abbassiamo il tono ci accorgiamo l’uno dell’altro. Allora si apre una finestra e poi una porta. La vita è una porta da cui si esce e da cui si deve rientrare per ricomporre un conflitto. Gli estremisti possono bandire la musica in pubblico e in privato, ma non possono impedire che risuoni nelle teste. Ne cercano la fonte per scovare il “colpevole” e sono costretti a sentirla e ad amarla. La ragazza che urla quando viene punita trasforma il suo pianto in canto, che è la ragione per cui viene castigata ed è insieme la forza che nutre la sua resistenza. E nemmeno la coreografia del calcio senza palla può essere oggetto di veto perché tecnicamente il gioco non c’è».
Prodigiosa la fotografia di Sofian El Fani, una poesia sottovoce, nonostante la forza intrinseca dei luoghi: le vacche magre che scendono nella sabbia, le case cotte dal sole, i colori forti degli abiti a contrasto con i visi di ambra scura o scurissima, un lago d’argento. «Il cinema è qualcosa che prima vedi e poi senti. L’inquadratura è un invito e per questo dobbiamo essere molto prudenti: l’immagine non deve essere troppo bella o artefatta, altrimenti si uccide la narrazione».
Con un diploma all’accademia cinematografica moscovita, Sissako ha una filmografia ristretta, i cui lungometraggi sono stati accolti favorevolmente a Cannes. In particolare, Waiting for happiness (2002, Un certain regard), storia autobiografica di un esilio e di un breve ritorno in Mauritania; e Bamako (2006), surreale processo della società civile africana contro la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale. «Il cinema è fatto non dall’intelligenza, ma dal desiderio che è il motore di tutto». Oggi più che mai desiderio di pace.