Andate a vedere “Ida”: splendido racconto per immagini della pazzia antisemita e della solitudine umana

Su un muro anonimo, dove è appoggiata una scala, si accende lo sguardo di una novizia: ha occhi mobili e indagatori, che scrutano la nuca di legno di un Cristo. Così inizia Ida di Pawel Pawlikowski, lasciando spazio ai silenzi della sua protagonista, Anna (Agata Trzebuchowska), un’orfana, cresciuta in un convento cattolico, prossima a prendere i voti nella Polonia dei primi anni Sessanta. La madre superiora, alla vigilia della sua promessa a Dio, la mette al corrente di aver una parente ancora in vita, zia Wanda (Agata Kulesza), sorella della madre mai conosciuta, e la obbliga a farle visita nonostante questa si sia sempre rifiutata di prenderla in affido.

 

 

Anna lascia il monastero e la macchina da presa non la rincorre mai: la coglie passare di sbieco davanti alla facciata del convento o tra le geometrie sofisticate dell’architettura liberty di un palazzo; tra i trafori delle scale in ferro battuto, i disegni floreali delle porte, le linee allungate e arcuate delle piastrelle, i decori e gli stucchi dell’appartamento in cui viene ammessa. Pare lo stesso occhio amorevole con cui Michelangelo Antonioni accarezzava l’eleganza degli edifici e delle strade di Milano in Cronaca di un amore (1951) o l’omaggio agli interni della villa di L’anno scorso a Marienbad (1961) del compianto Alain Resnais.

La zia accoglie la nipote col disincanto di un male necessario; la fa accomodare, mentre un uomo si riveste in camera da letto e si accomiata con un quasi blasfemo «Dio sia con te», a dispetto dei pantaloni chiusi alla disperata. Non c’è calore, ma nemmeno infingimenti. «Non potevo. Non volevo. Non saresti stata felice con me», Wanda liquida laconica il passato. E poi affonda cinica, ma senza cattiveria. «Così sei una suora ebrea». Alla notizia di chiamarsi Ida Lebenstein, Anna reagisce con lo stesso immobilismo che assumono certi animali da preda quando sanno di essere in pericolo. Affronta come può il morso della verità, senza dismettere lo sguardo fiero. Deve essere stata quella scintilla di orgoglio e determinazione a convincere Pawlikowski a scegliere Agata Trzebuchowska per il ruolo di Anna/Ida, nonostante il suo assoluto digiuno di recitazione. Una scommessa vincente accanto alle spalle sapienti dell’altra attrice, Agata Kulesza, che incarna con signorilità la disperazione alcolista di «Wanda la rossa», procuratore socialista, castigatrice dei nemici del popolo. Wanda Gruz è uno di quei personaggi che sarebbero piaciuti a Elia Kazan, esplosiva e implosa, violenta e lacerata, attraversata da un’ironia amara come quella che serpeggia nei versi della conterranea Wislawa Szymborska. Vorrebbe disfarsi della nipotina, ma alla fine l’accontenta, accompagnandola a Piaski, un borgo rurale, per sapere dove sono sepolti i loro cari.

«E se scopri che Dio non esiste?», la avverte la zia, prima di entrare nella campagna piagata da un antisemitismo ancora vivo (allora come oggi grazie a una destra xenofoba), in cui il contadino, che ha ucciso i loro famigliari durante la Seconda Guerra mondiale, è vivo, libero e occupa la casa che era stata di loro proprietà. È lui a dissotterrare nel bosco, scavando in una fossa comune, i resti di una donna, di un uomo e di un bimbo, che Wanda riceverà con il tremore di una perdita innominabile.

Quella che la fa sgusciare dai letti di improbabili amanti e che cerca di stordire nella narcosi dell’alcol. Una sorella, un cognato e un figlio, che Wanda aveva affidato a quel contadino per andare a combattere a fianco dei partigiani. Una madre, una padre e un cugino, che Ida seppellisce nel cimitero ebraico, disertato dai vivi e dai sentimenti, mentre il velo che porta sul capo vacilla. Soprattutto nell’oscurità, quando nel letto dell’albergo in cui pernotta, sente arrivare nella stanza il suono del sassofono del giovane Lis (Dawid Ogrodnik), cui lei e la zia hanno dato un passaggio sulla Wartburg bianca.

È la prima volta che Pawlikowski, nato a Varsavia nel 1957, gira in Polonia, Paese che aveva lasciato da adolescente per migrare brevemente in Italia e Germania e poi stabilirsi in Inghilterra, dove si è fatto le ossa come regista, e dove si è conquistato due premi Bafta per Last resort (2000) e per il tragico e potente My summer of love (2004). Torna nella sua terra per regalarle un ritratto pieno di bellezza e di poesia triste, colta nelle grate merlettate art nouveau, nel design sovietico, nella campagna nebbiosa e medievale e nel jazz di un 24milabaci in versione polacca.

Un atto d’amore, catturato con riprese circoscritte, insistite nel bianco e nero, cui è tornato anche Alexander Payne con il suo dolente Nebraska. Una resa nitidissima, con un formato retrò (1: 1,37) – lo stesso usato recentemente anche in The artist di Michel Hazanavicius-, dove raramente i corpi dei protagonisti sono ripresi per intero. Il regista indugia in primi piani di teste, spesso tagliate, di mezzi busti senza piedi e direzione. Le persone, gli oggetti sono di sghembo rispetto allo sfondo che guadagna la maggior parte della scena.

Come se Pawlikowski, grazie alle inquadrature parziali, volesse prendere le distanze dal cimentarsi in un racconto filologico su una materia storica, l’antisemitismo, di indicibile follia. Come se volesse avvertire che la sua è una narrazione di finzione, un’elaborazione di fatti reali, magari quanto più vicina al vero, più antieroica e antiretorica possibile, ma pur sempre un’interpretazione, come lo sono le vicende raccontate a distanza di decenni, alterate dai ripensamenti, dalle macerazioni e dai pentimenti.

Le figure intere compaiono solo nei campi lunghi, che illustrano i contesti, o nel piano sequenza in cui dal tram Anna scopre la città dove vive la zia.

Sono macchie o pedine sotto il peso di una Storia sanguinaria, che sopprime le vite o le risparmia con casuale irrazionalità. Come è accaduto ad Anna/Ida, salvata perché aveva la carnagione chiara, a dispetto del cugino olivastro e circonciso.

Ida ha vinto il London film festival, ma avrebbe potuto ambire a riconoscimenti più prestigiosi, perché è un racconto impeccabile per immagini della granitica solitudine umana, dignitosa come può, a dispetto della fragilità, della volubilità e dei quotidiani tormenti.