Holy motors: l’umanità in limousine

Holy Motors di Leos Carax divide, ma val la pena di provare l'esperienza

   

Padre attempato, capitano di alta finanza, mendicante, guerriero aborigeno futurista avviluppato in una tuta di vinile coperta da sensori, che si esibisce dentro a un laboratorio per la "motion capture" di una danza tribale e sensuale, trasposta in tempo reale in film o videogame. Denis Lavant, attore feticcio di Leos Carax, sguscia dai ruoli in cui il regista francese (al secolo Alexandre Oscar Dupont) lo fa calare in Holy motors, film che l'anno scorso divise la critica del festival di Cannes tra entusiasti e feroci detrattori. Tornato al lavoro dopo anni di silenzio dalle pellicole stralunate ed esasperate che lo segnalarono come enfant prodige del cinema francese – Rosso sangue (1986) Gli amanti del Pont-Neuf (1991) e Pola X (1999) –, con questa opera potenzia al massimo la sua vena surrealista, offrendo quadri disturbanti e disorientanti, con continui rimandi cinefili. A partire dalla scena iniziale in cui lo stesso regista, da un'impersonale camera d'albergo alle falde di una grande città, entra con un dito-chiave in un teatro dove una platea al completo dorme, beffandosi di La folla di King Vidor (1928) che scorre sul grande schermo.

Gli unici segni di vita sono un bimbo dalla camminata sghemba e un grosso cane che avanza al rallentatore. Un prologo che apre le porte alle performance di Lavant, fantomatico signor Oscar – secondo nome "vero" di Carax –, che viaggia per Parigi su una limousine guidata da un'affidabile e compassionevole Edith Scob, la Christiane sfigurata di Occhi senza volto (1960) di Georges Franju (alla fine indosserà una maschera con riferimento esplicito al film).

Proprio l'omaggio al maestro del realismo fantastico, apre le porte al tema portante di Holy motors – anche se la rutilante giostra delle storie non dà mai certezza di nulla – ovvero la compenetrazione incestuosa tra autenticità e menzogna, esasperata dalla virtualità, a partire dall'uomo di affari che detta al telefono assurde coordinate per operazioni di borsa. E nonostante il fascino di questo tema e gli indubbi lampi di genio, mentre Oscar muta travestimenti nel camerino ricavato nella Lincoln – la stessa in cui viaggia anche il protagonista di Cosmopolis di David Cronenberg –, si è spesso indecisi se abbandonarsi al sogno, molto spesso noir, e alla magia delle immagini di una regia impeccabile, o se sentirsi vittime di un'immane presa per i fondelli, soprattutto quando Oscar, ormai spossato, torna a casa da moglie e figlia scimpanzé (gli ominidi di 2001: Odissea nello spazio?) o quando le auto parlano a fine corsa. Eppure si è catturati dalla «bellezza del gesto», unico motivo per cui Oscar ogni giorno scivola nei panni di un altro, in vesti per lo più ingrate. Lavant lo spiega al suo capo (Michel Piccoli), che a sorpresa si fa trovare nell'auto-camerino per complimentarsi della sua bravura e insieme per rimarcargli una certa stanchezza e disillusione dell'azione. Chi è Oscar? Un attore le cui performance sono riprese da telecamere invisibili a disposizione sul webcast (The Truman show?), o una divinità che si insinua tra gli uomini dando vita a personaggi che segnano le loro sorti? O è un agente di una grande impresa di spettacoli orwelliana, come sembra quando incontra una vecchia fiamma, Kylie Minogue, con cui passa venti minuti di "verità", dando vita a un mirabile frammento di musical? O Lavant è una normalissima pedina di quella gran commedia d'arte che è la vita in cui siamo pirandellianamente tutti personaggi in cerca d'autore, dal killer no global del banchiere, al padre impietoso verso una figlia adolescente che si chiude nel bagno durante le feste dei compagni? Un sussulto buca l'impassibilità del protagonista solo dopo la morte di Minogue, cui non è riuscito a spiegare un nodo importante del loro rapporto: «Il tempo è contro di noi», aveva concluso amaramente, lasciando però passare i minuti. Un velo di compassione sembra trasparire nell'imbarazzo colpevole con cui abbandona una giovane, che aveva pianto al suo capezzale fino a un attimo prima e quando alla fine della giornata tenta disperatamente di ridere per rompere la grave catena della pesantezza esistenziale. L'episodio più visionario è forse quello di monsieur Merde (già protagonista di Tokyo!, pellicola collettiva del 2008, di cui Carax aveva firmato un atto), un Charlie Chaplin colorato e necrofilo, che si aggira per il cimitero di Père Lachaise, dove sulle tombe è incisa la scritta «visita il mio sito».

Qui investe un cieco, l'unico che non si sia scansato per l'orrore del suo aspetto, e trancia a morsi le dita all'assistente di un fotografo che, folgorato dal suo occhio bianco e dalla sua disumanità, avrebbe voluto immortalarlo con la modella (Eva Mendes), in posa sui sepolcri. Merde rapisce la manequin e la porta nelle fogne,

trasforma il vestito di alta moda in un burqua, e poi, nudo, con il membro in erezione si adagia sul ventre della donna, mentre la macchina da presa si allontana da quella pietà michelangiolesca oscena e blasfema. © RIPRODUZIONE RISERVATA